Federica De Paolis


Dunque, sono nata l’8 settembre del 1971 e sono cresciuta in una famiglia con un assetto borghese. Mangiavo con la filippina in cucina, per intenderci. E avevo un cane a cui ero legatissima, Petulia. Ho nuotato fino a otto anni con le pinne, poi mio padre un giorno me le ha buttate, e un po’ traumaticamente, ho cominciato a stare a galla da sola. Nuotare mi piace: come si stanca il corpo, il silenzio lunare sott’acqua. E mi piace imparare. Ho imparato a fare i mosaici e a ballare il tango. Un mese fa mi sono iscritta a un corso di chitarra e sono sicura che piano piano, prima o poi la suonerò. Invece la scrittura non so come è iniziata, è andata in automatico. Scrivere mi fa stare parecchio bene, se non fosse per quelle centinaia di sigarette che ci fumo sopra. I miei genitori si sono separati qualche mese dopo la storia delle pinne, mio padre si è messo con un'altra donna, ed è nato Roberto. Roberto a due anni aveva una girandola di peli d’oro sulla schiena, indimenticabile. Invece tre anni fa è nata mia sorella, Elisabetta. Ha i capelli neri e due strane frezze bionde davanti. I miei fratelli hanno sempre dei “peli” particolari. Strano. Sono stata bocciata due volte al liceo classico, non ho varcato la soglia del quarto ginnasio. In quegli anni è morta Petulia. Ancora la sogno. Sogno che mi guarda con quei suoi occhioni marroni e mi supplica di portarla in giardino a fare pipì. Più o meno in quei mesi, ho avuto un incidente con il motorino, mi sono rotta il femore. Sono stata bloccata svariati mesi a letto durante i quali, credo di non aver pensato a niente di significativo, solo che volevo rialzarmi e proseguire la mia adolescenza. Ho una cicatrice di trentasette punti sulla coscia destra. Quando mi hanno tolto le bende ho pensato che sarebbe stata dura convivere con quella lunga linea puntellata. Poi non so come mi sono iscritta al liceo artistico, ho fatto due anni in uno e una gloriosa maturità. Sono andata dritta come un fuso e mi sono laureata in storia dell’arte contemporanea. Quando mi hanno dato la mano congratulandosi per il centodieci e lode, ho avuto la sensazione di “averli fregati”. È una sensazione che mi ha abbandonato di recente. Ho sempre avuto il dubbio di essere una specie di bluff. A vent’anni me ne sono andata di casa. Ho avuto tre convivenze e ho imparato parecchie cose. Soprattutto sui calzini. Mi piace molto la dimensione della convivenza ma anche vivere sola. Sono due stanze diverse. Per qualche mese ho vissuto a Londra, sono venuta a Roma convinta che ci sarei tornata e avrei passato gran parte della mia vita lì. Non era vero niente, sono rimasta imbrigliata nelle maglie di questa città che è un bel cordone ombelicale. Dopo la laurea sono andata a lavorare nella società di distribuzione di mio padre, e più o meno in quel periodo, ho smesso di leggere Diabolik. Ho scritto molto di cinema per delle riviste specializzate, ho imparato a fare i dialoghi per i doppiaggi dei film e mi sono sentita inderogabilmente “la figlia di mio padre”. Ho iniziato a insegnare sceneggiatura all’Istituto Europeo di Design a ventisette anni. Ecco, anche insegnare mi piace parecchio. Nel 2001, data segnata nel mio immaginario dall’omonimo film di Kubrick (cosa farò nel 2001 - dove sarò - chi sarò?) è morta mia madre. I miei genitori non si parlavano da circa vent’anni. Qualche giorno prima che morisse, lei e mio padre mi hanno raccontato ridendo di una loro vacanza in Grecia. Quel giorno ho realizzato che mio padre e mia madre erano stati davvero insieme, si erano amati e anche divertiti. Ho provato una gran commozione. E poi li ho odiati, perché è l’unico ricordo solare che conservo di loro. Comunque, fine dei compromessi con la vita, perché ho capito che si muore. Me ne sono andata dalla società di mio padre e dopo un lungo letargo, ho cominciato a scrivere Lasciami andare, il mio primo romanzo. Poi ho fatto un documentario con Angelo, su Robert Guediguian che è un regista francese militante che in Italia conoscono in pochi. Una mattina a Marsiglia, intervistando Gerard Meyland pensavamo di morire assiderati, invece non ci è venuta neanche la febbre. Qualche anno fa un fotografo olandese, Peter Anderson, mi ha scattato in modo febbrile dei ritratti e dei dettagli del corpo. Nel mese di Marzo, la foto della mia cicatrice scintillava in bianco e nero immensa, al Campidoglio. Vedi, ho pensato. Quest’inverno ho cominciato a collaborare con «Liberazione» sull’inserto della domenica. Vivo a Piazza Vittorio da sette anni e ho capito che nella vita ci sono dei punti fermi. Bere molta acqua, ascoltare, scrivere. E la notte, prima di andare a dormire, vedere un DVD – possibilmente degli anni quaranta. Dubito che smetterò di tingermi i capelli, ma non si sa mai. Sì, non si sa mai.

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