Rohinton Mistry

Firozsha Baag

COD: d395771085aa Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
67
Pagine:
270
Codice ISBN:
9788881124008
Prezzo cartaceo:
€ 16,00
Data pubblicazione:
21-03-2003

Traduzione di Chiara Vat­teroni

Opera prima di Rohinton Mistry, Firozsha Baag è stato tradotto in numerosi paesi rendendo l’autore noto in tutto il mondo. Firozsha Baag è il condominio di Bombay che ha già fornito l’ambientazione per il romanzo Un lungo viaggio (Fazi, 1999). È un luogo ideale dove concentrare vari esemplari umani che l’autore indaga con la maestria psicologica e la partecipazione per i personaggi che contraddistinguono il suo approccio letterario di stampo classico, quasi ottocentesco. Per questo libro Mistry sceglie la forma del racconto e gli appartamenti del condominio forniscono la “cornice” ai vari capitoli dell’infinita saga di una piccola borghesia indiana ai limiti dell’indigenza. Dal colto Nariman, fascinoso affabulatore, alla balia Jackaylee e al suo dispettoso fantasma, dalla cucina scrostata di una famiglia in lotta con la precarietà dell’esistenza alla tragicomica follia di due poveri vecchi in subaffitto: tutte le manie, i tic, i piccoli vizi e i minimi screzi di un mondo dai precisi confini vengono ritratti con affetto e ironia. I personaggi si rincorrono e si alternano da un racconto all’altro, alcune volte uscendo alla ribalta, altre restando sullo sfondo come le comparse di un set cinematografico. E, nell’ultimo, “Lezioni di nuoto”, si rivela il filo rosso che lega le varie vicende umane, il filo sottile della memoria che scorre in mezzo alle tensioni tra passato e presente, tra il vecchio mondo e il nuovo, chiarendo il vero significato di un mutamento in atto attraverso questo mosaico di vite, le cui tessere sono sistemate in modo pungente e magistrale.

FIROZSHA BAAG – RECENSIONI

CHE LIBRI
– 01/05/2008

 

Gli impegnati

 

 

Pico Iyer (traduzione di Nazzareno Mataldi), LA RIVISTA DEI LIBRI

 

Passaggio a Bombay

 


Rohinton Mistry scrive quelli che potremmo definire romanzi neorealisti, in onore delle commoventi storie di lotta e sofferenza che contraddistinsero il cinema italiano dei primi anni Cinquanta (e oggi continuano a farlo, per esempio, nei film che arrivano dall’Iran rivoluzionario). Anche se vive a Toronto dal l975 (l’anno in cui emigrò dall’India all’età di ventitré anni e cominciò a lavorare in una banca), i suoi quattro libri sono tutti ambientati in una Bombay che ricrea e di cui si cruccia con la minuziosa attenzione per i dettagli propria dell’esule nostalgico. Diversamente da molti scrittori della diaspora dell’Asia meridionale, Mistry non si abbandona a polemiche infuocate né a voli della fantasia infarciti di riferimenti mitologici. Le sue storie sono ritratti accurati e pazienti di individui che cercano di trovare delle risposte in un mondo che di rado ne offre. Leggendolo, si ha l’impressione di essere non tanto in compagnia di Salman Rushdie o di Arundhati Roy quanto di Victor Hugo, forse, o di Thomas Hardy.
E’ tipico di Mistry aver ampliato a ogni libro il suo raggio d’azione. In Firozsha Baag, una
raccolta di racconti del 1987 (finalmente disponibile in traduzione italiana), descrive il suo territorio con brevi vignette quotidiane da un condominio di Bombay abitato da parsi, la comunità alla quale appartiene. Originari della Persia, che lasciarono nel VII secolo sulla scia del trionfo dell’Islam, i parsi o zoroastriani hanno a lungo vissuto e prosperato nei dintorni di Bombay.
Il suo primo libro, Un lungo viaggio (1991), sviluppa una di queste storie fino a farne un romanzo: il racconto di due amici parsi e della grande corruzione in cui sono coinvolti negli anni Settanta, durante i giorni turbolenti della dittatura di Indira Gandhi. Il romanzo successivo, Un perfetto equilibrio (1995) è un capolavoro di seicento pagine che ci fa penetrare a fondo nella vita di quattro abitanti di Bombay, soprattutto un paio di sarti che lottano per sopravvivere nelle strade della città: un libro che pochi dei suoi lettori dimenticheranno. Per me, è il più duro romanzo scritto in inglese che ci sia giunto dall’India. In Questioni di famiglia Mistry torna a una dimensione molto più raccolta, con una storia incentrata sulle vicissitudini di una famiglia parsi nella Bombay degli anni Novanta (anche se, quasi sotto ogni aspetto, potrebbe essere la Bombay degli anni Settanta, il periodo in cui sono ambientati gli altri suoi libri). Nariman Vakeel, settantanovenne professore di letteratura inglese in pensione, vive con la figliastra senza cuore Coomy e il figliastro incapace Jal, quando i due decidono di non farcela più a prendersi cura di un vecchio incontinente e così inventano un piano per appiopparlo alla paziente e amorevole sorellastra Roxana. Portano quindi la loro vittima, una figura sempre ironica e garbata, nel piccolo appartamento di due stanze che Roxana divide con il marito Yezad e i due figli Murad e Jehangir. Nariman, incline a citare Shakespeare e Marlowe, non è l’unico a cogliere, molto rapidamente, un paragone con il Re Lear.
Questa è di fatto l’intera storia. Ci sono qua e là flashback che ricordano il contrastato amore giovanile di Nariman per una ragazza non parsi e il chiarimento di altri segreti del suo passato, ma con Mistry si ha sempre l’impressione che il suo vero interesse non siano tanto i segreti quanto il passato in sé. La nostalgia ha un ruolo importante in questo romanzo, non ultimo perché la comunità parsi, in rapido declino per i matrimoni misti e le famiglie piccole, conta oggi in tutto il mondo meno di centomila persone. Ci sono vari vicini e datori di lavoro, molti dei quali con nomi memorabili (ma tipicamente parsi) come Daisy lchhaporia; e c’è un uomo che, come secondo lavoro, siede fuori da una libreria e scrive o legge lettere per i manovali analfabeti venuti a Bombay dalla campagna.
Mentre condivide con noi storie di ragazze sedicenni vendute a vedovi sessantenni, o di giovani amanti impiccati per aver violato le linee di divisione delle caste, questo personaggio dà a Mistry l’occasione di suggerire come lo scrittore possa parlare a nome dei dimenticati. Per lo più, comunque, le pagine del romanzo sono semplicemente ritratti di persone che s’imbattono l’una
nell’altra in una città dove la vita quotidiana è piena di barzellette sconce e di serie omelie, e il domani è senza certezze.

Mistry non è mai compiaciuto nel rappresentare gli aspetti esotici della sua India o del suo ambiente parsi; eppure la sua evocazione delle strade e dei suoni della brulicante e caotica Bombay è straordinariamente viva: respiriamo gli odori delle spezie usate in cucina e sentiamo le grida dei commercianti per strada. I personaggi fischiettano il motivo di un film di Stanlio e Ollio, fanno battute su Paganini e passano davanti a vetrine dove le renne di Babbo Natale indossano tenute da giocatori di cricket. Mistry si sforza di combinare affetto, umorismo e riflessioni filosofiche.
“”Sono onorato di conoscere l’ultimogenita del professor Vakeel”, disse Rangarajan stringendo la mano a Roxana. “Lei segue le orme del suo illustre genitore nell’educare ed elevare le menti dei giovani?” Roxana scosse il capo. “Sono solo una casalinga.” Il signor Rangarajan era inorridito. “Ma che cosa dice, cara signora? Occuparsi della casa è una carriera importantissima che richiede infiniti talenti. E’ la donna di casa che crea l’ambiente ideale per la famiglia. Senza la famiglia, null’altro conta, tutto crolla e precipita nel caos. In fondo questa è la malattia dell’Occidente. Non è d’accordo, professor Vakeel?” “Non credo che gli occidentali detengano il monopolio”, replicò Nariman.”
I lettori dei suoi primi racconti, contenuti in Firozsha Baag, noteranno come le sue ambientazioni (Chaupatty Beach e Firozsha Baag, il condominio di Bombay abitato da persone del ceto medio), i suoi arredi scenici (dentiere e libri di Enid Blyton) e persino i problemi che affronta – morbo di Parkinson e l’umiliazione di persone innocenti a opera dei teppisti nelle strade e delle malattie in casa – sono cambiati poco e niente. All’inizio di “Un fausto evento”, uscendo dal gabinetto, un uomo grida alla moglie da tempo malata, che gli avevano fatto sposare quando lei aveva appena sedici anni (Mistry ha un senso acuto dei richiami e delle indelicatezze del corpo e di tutti i modi in cui ci delude).
In Questioni di famiglia l’azione è aggiornata alla metà degli anni Novanta, quando la città conosce ancora un clima di tensione dopo gli scontri tra indù e musulmani di tre anni prima, e i nazionalisti indù dello Shiv Sena minacciano regolarmente di pestare chiunque non cambi il nome del proprio negozio da “Bombay” a “Mumbai”. Ma sotto la superficie niente è davvero cambiato. Mistry è tra i fortunati scrittori che hanno indovinato l’ambiente per le loro storie già al primo libro e sono riusciti, in un contesto ristretto, a trovare un intero universo.

Allo stesso tempo, tuttavia, ha padroneggiato l’arte di sviluppare quegli abbozzi iniziali in una narrazione compiuta, profonda e toccante della somma delle sue parti eccelse. Laddove Firozsha Baag è disseminato di parole in corsivo per tutti i vari riti e prodotti del mondo parsi, in Questioni di famiglia Mistry lasciale stesse parole in tondo, come a rendere chiaro che non è la loro estraneità al lettore occidentale il punto che gli sta a cuore. In tutta la sua narrativa cerca di evidenziare non come queste persone distanti siano diverse dal resto di noi, ma quanto al contrario ci siano vicine. Mistrà è tra i più famosi scrittori indiani attualmente conosciuti, in parte perché non cerca di fare dell’India il suo argomento principe o il suo punto forte.
Il suo vero territorio è il cuore diviso. Come Graham Greene, in un certo senso, è un ironista morale: un umanista, cioè, abbastanza duttile da vedere che raramente è possibile il lieto fine quando il bene è schierato contro il bene, o contro il male in un mondo dove il male detiene tutto il potere. Nei suoi libri i personaggi finiscono per pentirsi dei loro atti di compassione e quasi vorrebbero poter essere altrettanto furbi del ceto disonesto intorno a loro. E anche se nel mondo di Rohinton Mistry, come in quello di Greene, la corruzione è sempre localizzata in qualche organismo più grande – il governo, la burocrazia o persino un’inclemente provvidenza -, è allarmante proprio perché può influenzare così facilmente la vita dei benintenzionati.
Per esempio, appena accetta di accogliere il padre malato nel suo appartamento sovraffollato, Roxana mette a dura prova il rapporto con il marito (uomo generoso e di solito bonaccione) e ancor di più le già misere finanze della famiglia. (Il costo degli alloggi è in realtà una preoccupazione assillante in una Bombay dove spesso gli affitti sono cari come quelli di Tokyo o New York, anche se cinque milioni di persone vivono nelle strade.) Per disperazione, il marito di Roxana è spinto a mettere su una lotteria clandestina, aiutato da una vicina di appartamento civettuola, e a volte a maledire la moglie, anche se sa di amarla. Osservando gli alterchi tra i genitori, il figlio minore, Jehangir, decide che farà qualsiasi cosa per cercare di aiutarli a risolvere i loro problemi, anche se questo significa prendere bustarelle nel suo ruolo di “controllore dei compiti”. L’atto di cortesia di Roxana innesca quindi la catena di eventi che porterà il tenero figlio di nove anni alla stessa corruzione che sta distruggendo la città intorno a loro.
Tipico di tutto ciò che è sottile e vero nel libro è il modo in cui un personaggio, nel pieno delle sue disgrazie, decide di fermarsi, di ritorno a casa dal lavoro, nel tempio parsi del fuoco, alla ricerca di un po’ di calma e consolazione in una città che è “come una paziente in terapia intensiva”. Presto manifesta un tale attaccamento alla fede verso cui prima non aveva mai mostrato alcun interesse da trasformarsi anche lui in una specie di fanatico, intollerante come i teppisti dello Shiv Sena che disprezza. Nel frattempo la scaltra figliastra Coomy – la Gonerilla di Nariman – viene mostrata a un certo punto con lacrime di empatia negli occhi, e più tardi si scoprirà che ha conservato di nascosto un cimelio di famiglia per aiutare i nipoti che prima sembrava non aver mai degnato della minima attenzione.
Mistry fissa questi momenti con precisione da chirurgo, come a suggerire che nessun sentimento o motivo è mai puro. Sempre diffidente verso spiegazioni o teorie, impedisce al lettore di adagiarsi in una facile pietà. Come in Greene, di nuovo, molte delle sue scene prendono la forma di lunghe discussioni tra amici che cercano di capire le ingiustizie – e le possibilità – del mondo. Il capo di Yezad, per esempio, tende a decantare Bombay come un miracolo di tolleranza, una sorta di Camelot tropicale e un modello dell’induismo noto per accogliere “tutte le fedi, i riti, i dogmi e le teologie”. Ogni volta che esprime questi giudizi, che potrebbero sembrare vicini a quelli dello stesso Mistry, l’amico Yezad lo tiene bonariamente a freno.
Quando lo stesso idealista decide che è suo dovere salvare la città che ama candidandosi alle elezioni municipali, Yezad comincia a desiderare che intraprenda la pericolosa missione, non perché Bombay possa così riprendersi ma soprattutto perché lui possa avere una promozione e la situazione finanziaria della sua famiglia migliori. Anche quando muore un brav’uomo, ci dice Mistry, una parte di noi comincia a pensare come la sua morte renderà più facile (o più difficile) la nostra vita, mentre un’altra parte cerca di reprimere questo pensiero.
Trattandosi dell’India, i personaggi non cessano mai di meditare su questi argomenti: discutono costantemente di sorte, di mortalità, di bontà e di tutti i modi in cui gli esseri umani soffrono se si arrendono a un Destino dall’aspetto spesso capriccioso, o soffrono se non lo fanno. “C’è soltanto un modo per sconfiggere il dolore e la tristezza della vita”, dice a un certo punto Nariman: “Ridere e stare allegri”. Un altro personaggio domanda: “Cos’è questa forza assurda che chiamiamo destino?”. Mistry li osserva con quieta, scettica tolleranza: quando viene invocato il Mahatma Gandhi, come spesso succede, in genere è per suggerire che alzerebbe le mani in segno di disperazione se dovesse vedere la Bombay di oggi.

C è un momento, quasi all’inizio di Espiazione, il romanzo di Ian McEwan, in cui uno dei personaggi, meditando sul suo futuro di medico, immagina in che modo lo studio della letteratura potrebbe aiutarlo nel suo compito di guaritore: “Nascita, morte, e in mezzo un cammino di fragilità. Principio e fine, questi i fenomeni di cui si occupava un dottore, e altrettanto faceva la letteratura. Aveva in mente il romanzo del diciannovesimo secolo. Grande tolleranza e ampie vedute, un’umile generosità di sentimenti e l’imparzialità di giudizio; il suo modello di medico sarebbe stato aperto ai mostruosi disegni del fato, come alle vane e ridicole resistenze all’ineluttabile; avrebbe tastato polsi dal battito indebolito, ascoltato ultimi respiri, sentito mani febbricitanti farsi più fresche, e avrebbe riflettuto, come solo letteratura e religione possono insegnare a fare, sul coesistere di miseria e nobiltà nel genere umano… “.
Con caratteristica ironia, McEwan inserisce la riflessione poco prima che una parodia in una lettera finisca per errore nelle mani sbagliate ed esploda così quel mondo di nobile innocenza. La sua preoccupazione, sofisticata e mondana, è se, dopo due guerre mondiali, questi nobili proponimenti possano sopravvivere in un mondo molto meno ottimista. Ma, in modo straordinario, la sua descrizione comincia a cogliere le intenzioni di Mistry mentre si muove intorno ai suoi personaggi come un medico, ansioso di restituir loro la felicità e la salute, eppure profondamente consapevole che la maggior parte dei problemi è fuori dal suo controllo, che probabilmente i trionfi si dimostreranno temporanei e che la stessa compassione potrebbe rappresentare una zavorra in un mondo che raramente è tenero. Il “perfetto equilibrio” che dà il titolo al suo romanzo più noto si riferisce all’equilibrio a cui molti di noi, come un medico, devono arrivare: equilibrio tra ottimismo e realismo, tra determinismo e fede.
I visitatori in India, anche nel XXI secolo, sono spesso sorpresi da come il recente passato britannico gravi ancora pesantemente sul presente, con P.G. Wodehouse che ancora rappresenta la figura principe in molte librerie e con scolari a cui di norma viene chiesto (come in Questioni di famiglia) di imparare a memoria Tennyson. Nella narrativa, tuttavia, questo significa che gli scrittori indiani dei ceti medi, che scrivono in inglese, sono collegati in modo naturale a una tradizione del XIX secolo che non è mai stata soppiantata (come è successo in quasi ogni altro paese di lingua inglese).
Spesso i matrimoni vengono ancora combinati, e ragazzi e ragazze sono soggetti a molte pressioni familiari come in Jane Austen; nelle strade delle città pulsa ancora l’energia e la povertà della Londra di Dickens; e – cosa più importante di tutte, forse – la gente continua a vivere come se la religione non fosse stata scompaginata dalla scienza e Nietzsche non fosse arrivato a parlare della morte di Dio. In scrittori come Vikrain Seth e Anita Desai – e soprattutto Rohinton Mistry – la mera trascrizione del mondo circostante ricade in una forma ottocentesca come mai succederebbe, per esempio, nel londinese Martin Amis o nel newyorkese Don DeLillo.

In qualche modo, questa vicinanza a una grande tradizione e a un serio e disinvolto interesse per i personaggi e le storie potrebbe essere una fonte di forza della narrativa indiana contemporanea quanto lo sono i più ovvi richiami del realismo magico; e comincia a spiegare perché Bombay stia diventando un centro fondamentale della letteratura inglese quanto lo era Londra ai tempi vittoriani, Significa anche, inevitabilmente, che lettori con una mentalità più moderna possono spazientirsi con un libro come Questioni di famiglia, che impiega senza fretta un centinaio di pagine per mettere a fuoco la sua situazione familiare. Scene in cui un ragazzino cerca di proteggere il nonno dai brutti sogni, o in cui un violinista suona partite di Bach a un moribondo, possono apparire un po’ troppo antiquate alle anime più temprate. Alcuni lettori canadesi hanno suggerito che Mistry vede Bombay solo come potrebbe farlo un vecchio esule (i suoi adolescenti del XXI secolo non mostrano nessun interesse per MTV né per i computer).
In questo libro si ha anche la sensazione che Mistry cerchi come sempre di spingersi oltre, e che a volte si sposti dal terreno che copre così magnificamente verso temi per i quali la sua angustiata premura è meno adatta. Nei passi in cui i personaggi discutono di Bombay come una mecca di tolleranza multiculturale che potrebbe fungere da faro per un mondo pluralista, finiscono per assomigliare moltissimo alle figure di Salman Rushdie, pur senza la furiosa energia e la vigorosa combattività di questo scrittore, le cui frasi e i cui paragrafi sono essi stessi una forte argomentazione a favore del multiculturalismo. (Ci si dimentica facilmente che Rushdie è sempre al suo meglio, e al massimo della sincerità, quando evoca una Bombay che anche lui vede raramente dall’adolescenza.) In tutti i libri di Mistry la ricerca di un più ampio obiettivo politico non è mai convincente quanto le semplici scene domestiche di cui è maestro, spingendoci a farci preoccupare – e persino pregare – per i suoi personaggi, secondo molti recensori, come quasi nessun altro scrittore contemporaneo sa fare.
Grosso modo per la stessa ragione, forse, il finale dei suoi libri non è mai stato il loro punto forte e, a differenza di Graham Greene, Mistry non salda come potrebbe le ampie riflessioni sulla società e i drammi individuali. In Questioni di famiglia, una sezione verso la fine del libro è narrata in prima persona e, per me, appena Mistry abbandona la sua prospettiva in terza persona, con la sua aria di soffusa compassione, qualcosa viene meno. Anziché vedere ogni persona dall’interno, siamo bloccati in una prospettiva e qualcosa del tono guardingo che distingue la sua voce si perde.
Tra i racconti di Firozsha Baag, il più debole è quello scritto in prima persona, affidato alla voce di un esule solitario in un condominio di Toronto che spedisce lettere alla brulicante Bombay di cui tanto sente la mancanza. In questo racconto il linguaggio è intenzionalmente piatto e scomposto, e c’è appena un’esile traccia di imbarazzo nel modo in cui i genitori rimasti in India cercano di immaginare il figlio scrittore, un po’ come potrebbe succedere a un lettore o a un recensore. (“Tutti i suoi racconti parlano di Bombay, ricorda tutte le piccole cose dell’infanzia, ci pensa sempre anche se è a diecimila miglia di distanza.”)
In quasi tutti i suoi scritti, il grande dono di Mistry è eliminare ogni traccia d’imbarazzo e scomparire in modo così naturale nei suoi personaggi che nulla sembra interporsi tra noi e le loro tormentate speranze. La sua libertà dai giochi postmodernisti e dalla costruzione di miti è in realtà uno degli elementi che lo rendono così fresco e capace di emozionare. Questioni di famiglia non aspira all’epica grandezza di Un perfetto equilibrio, eppure commuove e cattura ovunque. Prendere ciò che è banale e familiare e trasformarlo in qualcosa di umanamente importante è, si potrebbe dire, la realizzazione singolare di questo scrittore dai talenti duraturi.

Cinzia Fiori, CORRIERE DELLA SERA
– 01/07/2003

 

La mia cronaca familiare nel condominio Bombay

 

INCONTRI Parla l’autore indiano emigrato in Canada riconosciuto per due volte miglior scrittore del Commonwealth
“La mia cronaca familiare nel condominio Bombay”
I GIUDIZI
Ha vinto più premi di quanti libri abbia scritto. Due volte è stato riconosciuto miglior scrittore del Commonwealth e a ogni romanzo si ritrova tra i finalisti del Booker Prize. Ne ha scritti tre: Un lungo viaggio (Fazi, 1999), Un perfetto equilibrio (Mondadori, 2002) e Questioni di famiglia , uscito di recente da Mondadori. Ma Rohinton Mistry, nato a Bombay nel 1952 e trasferitosi in Canada nel ’75, non ha mai amato la popolarità, neppure quando esordì con i racconti di Firozsha Baag (Fazi, 2003). Perché sia tanto difficile strappargli un’intervista, è lui stesso a spiegarlo: “Provo disagio nel rispondere alle domande sui miei libri, penso che non ci sia molto da dire. Qualsiasi cosa si chieda, è già nel romanzo”. In barba alle tendenze d’oggi, i suoi romanzi sono grandi storie vissute dalla gente comune. Tant’è che gli americani lo hanno paragonato a Dickens, sebbene ambienti i suoi libri a Bombay. In Questioni di famiglia s’è superato. Riesce a tenere inchiodato il lettore per 491 pagine narrando come il morbo di Parkinson e le sue complicazioni minaccino di distruggere quel che resta della famiglia di Nariman Vakeel, anziano ex professore della comunità Parsi. Nessuna trama gialla né serial killer o magie, niente di abnorme accade in Questioni di famiglia. Si può narrare la semplice vita?

“Quando scrivo non inizio da una trama avvincente. Forse alcuni scrittori ritengono che la normalità non sia interessante. E’ un errore. L’ordinario è spesso straordinario. Tant’è che provare a dividere gli eventi nelle due categorie è un tentativo inutile: si ottengono valutazioni superficiali. La semplice vita, se osservata da vicino con pazienza e intelligenza, è portatrice di ricchezze che superano ogni aspettativa”.

Tutto precipita quando Nariman si infortuna ed è costretto a letto. I due figliastri Jal e Coomy lo scaricano dalla sorellastra Roxana, che vive in due stanze con il marito Yezad e due figli. Intorno c’è Bombay con i suoi mille volti, dentro la testa di Nariman un antico amore contrastato. L’abilità di Mistry nel tessere relazioni ed eventi è qui piegata a dimostrare ciò che sta nel titolo: la famiglia è importante . Che cosa intende?

“Nel romanzo ciascuno rende conto che la famiglia è importante. Non conta quanto lontano vada, in termini di tempo o di distanza, non c’è via di fuga. Prendiamo il vecchio Nariman. L’influenza dei suoi genitori, la loro opposizione alla sua storia d’amore con Lucy, il matrimonio tardivo che gli combinano: tutto ciò determina la sua esistenza. Poi guardiamo a sua figlia Roxana e al genero Yezad. Forse al tempo del loro matrimonio pensavano di condurre la propria vita in pace. Ma quando Nariman è forzato a trasferirsi da loro, Yezad si trova faccia a faccia con il fardello degli obblighi familiari. Essendo un uomo per bene, sopporta la presenza del suocero in uno spazio tanto angusto. Supponiamo invece che Yezad fosse stato un villano e avesse rifiutato di accogliere il suocero: come avrebbe reagito Roxana? Il loro rapporto avrebbe subito un’alterazione radicale, la vita di Yezad sarebbe cambiata”.

A proposito di famiglie allargate, un personaggio del suo romanzo giudica l’individualismo che arriva dall’Occidente come il principe dei mali. Lei scrive d’India dal Canada, che ne pensa?

“Quando in Canada uscì Firozsha Baag , i lettori mi dissero quanto era piacevole vedere che esistevano relazioni tra vicini nel caseggiato di Firozsha Baag. Trovavano quella comunità calda e piena di vita. Aggiungevano che tutto ciò era molto diverso dalla vita nei condominii dell’Occidente, dove uno può passare anni senza sapere chi sia il suo vicino. Ma se quei lettori avessero parlato con gli inquilini del Firozsha Baag a Bombay, avrebbero scoperto che non ne potevano più d’esser circondati dai rumori, della totale mancanza di privacy”.

La sua attenzione alle relazioni umane si accompagna all’ardore etico. Lo applica quando narra la corruzione a Bombay o i disastri del governo di Indira Gandhi, ma anche su scala minore: prima o poi tutti i suoi protagonisti pongono domande alla propria coscienza.

“Quando i personaggi si trovano ad affrontare un problema etico diventano più interessanti come esseri umani. E’ affascinante osservare questo tipo di situazione. Lavorare con le ombre del grigio è meglio che usare soltanto il bianco e nero”.

A differenza di molti autori di origine indiana, lei non ha bisogno del realismo magico per colorire la realtà. Anzi, la sua narrativa è stata paragonata al Neorealismo italiano, si parla di Neo-neorealismo asiatico.

“Se proprio è indispensabile usare una parola, quella è realismo. Faccio il necessario per creare personaggi credibili e rendere interessanti le loro vicende. Ciò può significare non cedere alla tentazione di sgargianti giochi di parole e comporta la ricerca di un modo che renda l’autore quanto più invisibile gli riesce nella narrazione. I miei romanzi nascono da un’immagine o da un personaggio. In Un perfetto equilibrio il germe della storia fu una giovane vedova. In Questioni di famiglia l’immagine di un vecchio malato di Parkinson è stata il punto di partenza”.

Tra i suoi personaggi potremmo mettere Bombay…

“Bombay contiene l’intero universo. Il suo cosmopolitismo, la differenza di culture, la vicinanza tra estrema ricchezza e povertà fa di quel luogo ciò che è. Puoi asserire quel che vuoi su Bombay, ogni affermazione sarà perfetta. Poi puoi dire l’esatto contrario e anche in questo caso avrai ragione. Mi piace scriverne”.

Lei è parsi, membro di una comunità della diaspora, fedele a Zarathustra. E’ un gruppo influente a Bombay, che va sparendo. Sente una responsabilità quando con i suoi libri testimonia quella cultura?

“Tra i miei personaggi ci sono i parsi, nei romanzi di Malamud gli ebrei e in quelli di Joyce i cattolici. L’unica responsabilità di uno scrittore è raccontare la verità come la vede”.
Cinzia Fiori

Sandra Petrignani, PANORAMA
– 09/05/2003

 

Commedia umana in India

 

E’ nato a Bombay nel 1952 Rohinton Mistry e dal 1975 vive in Canada. Scrive lunghi romanzi in cui ricostruisce l’identità della sua patria lontana. Questo lo fanno anche altri scrittori indiani che, come lui, nutrono la scrittura di nostalgia. Nella maggior parte dei casi l’India che restituiscono al lettore è un guazzabuglio buffonesco e folcloristico che va a confermare i peggiori stereotipi su quella complicatissima area del mondo. Tanto che, quando sul tavolo capita l’ennesimo romanzone dell’ennesimo autore indiano, lo si apre con annoiato sospetto.
Sarebbe un errore mettere Mistry in questo calderone. Mistry è un grandissimo scrittore di impostazione classica e di sensibilità feroce. La commedia umana che mette in scena è di checoviano realismo e di proustiano affondo psicologico. Persino chi non ama il “figurativo” in letteratura è costretto a cedere di fronte alla nuda verità e commovente presenza dei suoi personaggi.
Prendiamo gli ultimi due libri tradotti in Italia, la raccolta di racconti Firozsha Baag (Fazi) e il romanzo Questioni di famiglia (Mondadori). Vengono dopo molte altre due splendide opere, Un lungo viaggio e Un perfetto equilibrio (Mondadori), libri che hanno suscitato in ambito anglofono straordinari consensi.
Firozsha Baag, che fu il sorprendente esordio di Mistry, e resta forse, anche per la coralità dell’impostazione, il suo capolavoro, racconta le vicende di un condominio, in cui vive una comunità parsi (minoranza religiosa concentrata a Bombay a cui appartiene anche l’autore). Vita quotidiana, ripicche condominiali, grandi tragedie e piccoli dissapori, violenza giovanile e prime attrazioni erotiche danno vita a una serie di storie intrecciate (in cui si adombra molta autobiografia) dove protagonista è l’umanità intera. Il microcosmo di Mistry, infatti, tanto più è tipicamente indiano, e ancor più tradizionalmente parsi, tanto più riesce, per l’universalità dei sentimenti in gioco, a diventare rappresentativo di qualsiasi convivenza sociale.
Così è per Questioni di famiglia, dove la vicenda di un vecchio malato di Parkinson, palleggiato fra i figli, diviso fra il doloroso presente e un passato che torna nel ricordo con tutti i suoi errori, è “questione di famiglie” anche occidentali. L’arcaicità e la forte religiosità della società indiana, contrapposte a una modernizzazione nevrotizzante, servono, semmai, da lente d’ingrandimento per un’osservazione più minuziosa e spietata.

Renzo S. Crivelli, IL SOLE 24 ORE
– 27/04/2003

 

Nel condominio di Bombay si riscopre l’identità

 

Siamo nella Bombay di oggi, brulicante di vita, coi suoi immensi viali, coi Giardini pensili, la spiaggia assolata di Marine Drive e i grandi blocchi di caseggiati popolari in cui si concentrano persone di varia estrazione sociale. Fra di questi vi è Firozsha Baag, un complesso di tre edifici numerati, a pochi passi dal mare, che concentra centinaia di famiglie (impiegati, piccoli commercianti, pensionati) costrette a condividere le loro esistenze quotidiane. Questo straordinario serbatoio umano costituisce l’ossatura – talvolta opprimente, talaltra gratificante – di un intenso romanzo dell’indiano-canadese Rohinton Mistry (classe 1952, nato in India ed emigrato in Canada nel 1975), che ha già al suo attivo un’opera fortunata come Un lungo viaggio (tradotto in italiano nel 1999 per Fazi), finalista al Booker Prize.
Nel vasto caseggiato di Firozsha Baag, che dà il titolo al romanzo di Mistry, avviene di tutto; o meglio, avviene tutto ciò che la vita ci dispensa: nascite, morti, fidanzamenti, iniziazioni sessuali, sofferenze e frustrazioni, e le sequenze del racconto, costruite con l’espediente della sovrapposizione temporale dei fatti e racchiuse in quadri solo apparentemente autonomi, riescono a scomporre ogni singolo episodio in un mosaico di sensazioni private che rivelano delicate e accattivanti psicologie. Il ricorso alla vita dei vasti caseggiati di Bombay per aprire un vivido spaccato sui problemi dell’India contemporanea – spartita tra il richiamo della tradizione (con i suoi rituali religiosi, le consuetudini, le convenzioni legate all’esercizio delle teorie zoroastriane) e quello del progresso (l’aggancio con il consumismo occidentale, con la pubblicità, la tecnologia, fino alla minigonna contro il sari) – non è nuovo nella narrativa indiana. Basti pensare a Morte di Vishnu (Mondadori 2001), il romanzo coevo di Manil Suri, scrittore indiano nato anche lui a Bombay (classe 1957) ma residente da parecchi anni negli Stati Uniti.
Ma qui, in Firozsha Baag, che è stato scritto nel 1989 ed è ora tradotto da Chiara Vatteroni sempre per Fazi, ciò che risulta accattivante, oltre al ritmo concitato delle vicende, è lo spartiacque tra la Bombay di oggi e la condizione dell’emigrante, che da lontano rivive la sua infanzia (sempre immersa nel suo passato) soffrendo per un legame indissolubile. Ed ecco che i vari personaggi di Firozsha Baag, tutti indiani parsi, dalla giovane e sognante Mehroo condannata a vivere con un avvocato munito di dentiera alla paurosa Najamani che condivide il frigorifero con gli altri inquilini, dalla governante Jaakaylee che vede il fantasma del caseggiato al dottor Mody, veterinario in pensione e struggente collezionista di francobolli, si intrecciano in un affresco multicolore (non mancano le accurate descrizioni degli abiti e del folklore indiano) che finisce poi col sovrapporsi alla visione, mediata dalla memoria, del narratore di queste storie, che solo alla fine si rivela un emigrato di Toronto.
Questa prospettiva, che accomuna Firozsha Baag ai più significativi romanzi post-coloniali d’oriente, apre anche una finestra sulla diaspora indiana. E fra le sequenze, dense di ricostruzioni dei modelli solidali d’una nazione in gran parte ancora patriarcale, troviamo quelle che ci mostrano le difficoltà di adattamento degli emigrati in Canada (due soli esempi significativi: l’impermeabilità “organica” del parsi Sarosh, che non riesce ad adattarsi alla tazza del gabinetto occidentale, e i problemi di deglutazione di tanti indiani sottoposti alla cura degli assistenti sociali canadesi) accanto a quelle che illustrano le aspirazioni di integrazione sociale del narratore, che diventa “scrittore della propria terra” per sopravvivere alla nostalgia.
Un’ultima annotazione: l’ottima traduzione italiana presenta una serie di note e un prezioso glossario in cui, purtroppo, molte sono le parole indiane che restano senza riferimenti (a cominciare dal titolo).

Claudio Gorlier, LA STAMPA/TTL
– 10/05/2003

 

L’India vista da Toronto

 

 

SAROSH, un giovane Parsi di Bombay, decide di emigrare in Canada. Si dà un termine di dieci anni, passati i quali o si sarà completamente occidentalizzato, o ritornerà in India. Muta il suo nome in Sid, a Toronto, e trova un lavoro, ma si scontra con un ostacolo angoscioso. Abituato, come tutti gli indiani, a servirsi di un gabinetto alla turca, non riesce, ad onta di contorsioni ed equilibrismi, a defecare all’occidentale. Ce la fa soltanto saltando sopra lo sciacquone, ma è una tortura, e richiede un mucchio di tempo. Così arriva in ritardo al lavoro e perde di fatto il posto. Passano gli anni, ma Sarosh non risolve il problema, anche perché rifiuta il consiglio di applicare un apparecchio all’intestino. Trascorsi i dieci fatidici anni, eccolo sull’aereo che, sotto una pioggia battente, sta per decollare da Toronto per Bombay. Qui, Sarosh prova il desiderio di liberarsi, corre nella toilette e, miracolosamente, riesce finalmente in ciò che aveva sempre fallito. Felice, alla hostess che lo invita a riprendere il suo posto perché l’aereo sta per iniziare il decollo, Sarosh grida che vuole scendere. Troppo tardi. Canadese fallito, in India non sarà mai più lo stesso. Ho riferito con ampiezza il nocciolo di L’uomo accucciato, uno dei racconti di Rohinton Mistry che formano Firozsha Baag, libro che appare ora in italiano tradotto con la consueta perizia da Chiara Vatteroni (Fazi editore, pp. 267, e 16). Il racconto è un piccolo gioiello, a cominciare dalla struttura: la storia di Sarosh viene raccontata a un gruppo di ragazzini da zio Nariman, un intrattenitore nato e quindi scaturisce dall’oralità. Intreccia il serio e l’ironico, con un tocco di satira che investe l’India e il Canada. Scrivendone su una rivista indiana, lo scorso anno, intitolai il mio contributo Canadindia. Mistry, nato a Bombay nel ‘52, trasferitosi a Toronto nel ‘75, è considerato oggi scrittore canadese, ma il mondo dei suoi consistenti romanzi resta Bombay; anzi, il quartiere Parsi che si chiama, appunto, Firozsha Baag. L’ultimo, Questioni di famiglia, pubblicato da Mondadori nell’efficace traduzione di Maria Clara Pasetti (pp. 496, e 17,60), lo conferma. Siamo, dunque, come nel romanzo precedente, Un perfetto equilibrio, in un clan Parsi. Mistry è egli stesso Parsi, discendente, cioè, di quei persiani adoratori del fuoco e seguaci di Zoroastro (o Zaratustra), rifugiatisi in India circa mille anni or sono. Nariman, vedovo settantanovenne di Bombay, sofferente di Parkinson, vedovo da tempo, ha due figliastri e una figlia. Quarant’anni prima, giovane intellettuale, avrebbe voluto sposare una cristiana di Goa, ma le pressioni della famiglia lo avevano costretto al matrimonio con una vedova Parsi. Mentre Nariman è coricato essendosi rotto una caviglia in una imprudente passeggiata, egli assiste, se non alla ribellione, all’insofferenza dei figli. La sua irascibilità naturale si inasprisce, e lui, già professore di letteratura inglese, si paragona allo shakespeariano Re Lear, una figura – va aggiunto – che già si affaccia in altre opere di Mistry. Nariman va a stare con la figlia Roxana e il genero Yezad, un Parsi anomalo che si vanta di essere più inglese di un inglese. Ma, nell’epilogo del romanzo, che si svolge sette anni più tardi, incontriamo un Yezad divenuto Parsi di stretta osservanza. Con mano di ferro, Yezad regge la famiglia e innesca una serie di conflitti pressoché inarrestabili, che soltanto in parte verranno sanati dalla terza generazione. Nariman, nel frattempo, è stato confinato in un ospedale e riportato in estremo a casa per morire. Qui l’arte di Mistry conferma tutto il suo respiro e la sua tragica ambiguità, le domande cui non si può rispondere. Sono le divinità, o una sola divinità, misteriosa che si prendono gioco di noi o si divertono a farci soffrire? L’accettazione può consolarci e risarcirci? Gli echi shakespeariani, dichiarati, e quelli dostoevskiani, a mio avviso impliciti, non intaccano l’originalità tutta post moderna di Mistry, che ripossiede e vigorosamente rinnova una maestria nel raccontare con radici e un respiro millenari.

 

Firozsha Baag - RASSEGNA STAMPA

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