Jean-Michel Valantin

Hollywood, il Pentagono e Washington

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Il cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni

Collana:
Numero collana:
106
Pagine:
208
Codice ISBN:
9788881126095
Prezzo cartaceo:
€ 15,00
Data pubblicazione:
08-04-2005

Traduzione di Jacopo De Michelis

La prima storia di una relazione molto pericolosa: quella fra Hollywood e il potere politico-militare americano. In questo libro Jean-Michel Valantin racconta la storia degli stretti legami fra l’industria cinematografica e i centri del potere politico-militare americani dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Documenti alla mano, l’autore mostra come il Pentagono e Washington siano a più riprese intervenuti direttamente per finanziare i film e orientare le scelte delle major e dei network televisivi, allo scopo di accrescere il consenso del pubblico verso le scelte dei governi in fatto di politica interna e, soprattutto, estera; e come in molti altri casi le major, creando spontaneamente un “cinema di sicurezza nazionale”, abbiano contribuito a formare nel pubblico occidentale il bisogno di demonizzare il nemico di turno e di far fronte comune. Da quando Roosevelt convocò Capra e Ford per commissionare loro film che mobilitassero psicologicamente la nazione, passando per pellicole ideologiche come Il giorno più lungo, Terminator, Top Gun, Independence Day, la storia si snoda fino alla guerra irachena e alla nota montatura del salvataggio di Jessica Lynch, la donna-soldato “presa in ostaggio” in Iraq e liberata in diretta con una spettacolare irruzione sceneggiata dal Pentagono. Un saggio lucido, agile e attualissimo.

«Valantin dimostra che, per quanto preoccupata dalla propria indipendenza, Hollywood è stata sempre e rimane oggi ossessionata dal problema della sicurezza nazionale».
«Le monde des livres»

«Dopo aver letto questo libro non guarderete più i film americani nello stesso modo».
«Nouvel Economiste»

HOLLYWOOD, IL PENTAGONO E WASHINGTON – RECENSIONI

 

Boris Sollazzo, LIBERAZIONE
– 22/04/2008

 

Telefilm Usa, Pentagono e Potere: un matrimonio ancora aperto

 

 

 

L’EUROPEO
– 01/07/2005

 

Attenti al lupo

 

Nel 1942 Franklin Delano Roosevelt convoca alla Casa Bianca i maggiori registi: da allora, sostiene l’autore del saggio, Jean-Michel Valantin, la collaborazione tra major e governo americano è strettissima. Le prime promuovono autonomamente un “cinema di sicurezza nazionale”. Il governo e la difesa finanziano invece film che orientino il pubblico. Obiettivo: demonizzare il nemico di turno.

 

Enrico Magrelli, FILM TV
– 26/06/2005

 

La strategia del cinema

 

Jean-Michel Valentin si occupa di studi strategici e di sociologia della difesa e quando va al cinema nota, osserva e tende a smontare le storie da una prospettiva che non è quella della maggior parte dei frequentatori di sale cinematografiche. Non tutto quello che scrive nel suo saggio Hollywood, il Pentagono e Washington (Fazi Editore, pp. 204, € 15,00) suona estraneo a chi cerca di connettere l’immaginario sociale di un Paese come gli Stati Uniti con i film in cui quel Paese si autorappresenta, ma
l’arco temporale preso in esame e la dovizia dei riferimenti (dozzine e dozzine di titoli da Il villaggio dei dannati a Independence Day, da The Patriot ad Armageddon, da Terminator a L’ultimo samurai) sono una mappa dettagliatissima per rivisitare cinquanta anni di cinema americano sottolineandone le interazioni con il potere politico e militare. Secondo l’autore, il dibattito strategico ha pesato e pesa su quello che viene definito il cinema di sicurezza nazionale. Un cinema che a volte è un’apologia e a volte un atto d’accusa e che testimonia anche come fasi di dialogo si alternino a fasi di conflitto tra Washington e Hollywood. Il punto di articolazione di questa interazione è la nozione polimorfa di minaccia (blocco sovietico comunista, terroristi, apparati deviati dello Stato, Saddam, alieni). Per Valentin la trasformazione delle pratiche strategiche in racconti, fiction, kolossal non perde mai di vista i miti fondatori (e i peccati originali) della società americana: la frontiera,la città sulla collina e il destino manifesto (per il bene del mondo intero).

 

Antonio Calabrò, IL MONDO
– 08/07/2005

 

Abitare la televisione (e scriverne)

 

Hollywood, il Pentagono e Washington, un saggio di Jean-Michel Valantin dedicato “al cinema e alla sicurezza nazionale americana dalla Secon-da guerra mondiale ai giorni nostri”. L’industria cinematografica Usa, secondo Va-lantin, si muove come macchina di propa-ganda, assertiva costruttrice di miti e mo-delli generali, spettacolare traduttrice degli schemi buoni-cattivi. Ma ideologica, spesso, è proprio l’analisi di Valantin. E tutta francese la ruvidità antiti-americana. Perché è vero che c’è molta propaganda nella costruzione di trame cinematografiche ricche di eroi di guer-ra e vittime innocenti. Ma è altrettanto vero che il cinema di Hollywood rivela la complessità del mondo, della cultura e dell’etica degli Usa, comunque, con mille difetti, una grande, dialettica, articolata democrazia.

 

C.B., LA DISCUSSIONE
– 02/08/2005

 

Pentagono, ciak si gira

 

 

 

E. A., DUELLANTI
– 01/07/2005

 

Jean Michel Valantin

 

“Il cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri” recita il sottotitolo, esplicitando il legame esistente negli Usa tra industria cinematografica e indirizzi politico-militari di chi guida il Paese. A ben vedere solo le dittature hanno dichiarato questa funzione del cinema, ma la ricognizione di Valantin dimostra come anche un potere cosiddetto democratico sia intervenuto direttamente, finanziando major e network al fine di orientare una produzione di immaginario che creasse consenso rispetto agli obiettivi perseguiti dall’amministrazione in carica. Questo “cinema di propaganda” copre un arco che va dai militanti Ford e Capra alla militare Lynch (nel senso di Jessica), da Berretti verdi a Rambo , da Tora! Tora! Tora! a Pearl Harbour. non mancano neppure le interazioni tecnologiche cinema-esercito: le cineprese sottomarine utilizzate per The Abyss, per esempio, furono poi usate dalla Marina Usa.

 

 

Tonino Bucci, LIBERAZIONE
– 14/04/2005

 

Il Pentagono chiama, Hollywood risponde

 

La domanda non è nuova. C’è un rapporto – e quale – tra Hollywood e il Pentagono?Fino a che punto il complesso militare – strategico degli Usa è in grado di condizionare a proprio vantaggio la grande fabbrica dell’immaginario? Tanto per fare un esempio recente, durante l’invasione americana dell’Iraq nel marzo 2003, una giovane recluta, Jessica, venne catturata dall’esercito iracheno per essere poi, in breve tempo, liberata senza colpo ferito. Nelle ore seguenti scattò subito l’annuncio che i grandi produttori hollywoodiani si stavano interessando all’idea di trasformare l’episodio di un film.
Di contaminazioni del genere tra realtà e finzione la cultura americana è traboccante, tanto da rendere quasi proibitiva una ricostruzione storica del cinema made in Usa. Un motivo in più per segnalare il lavoro di Jean-Michel Valantin. Hollywood, il Pentagono e Washington. I tre attori di una strategia globale. (Fazi Editore, pp. 256, euro 16,00) che, documenti alla mano, risale al funzionamento di questo “gigantesco dispositivo” in cui il potere politico, il potere militare e il potere cinematografico si compenetrano.
Film come Indipendence day (1996), Armageddon (1998), Black hawk down (2001) o La morte può attendere (2002) mettono al primo posto il tema della sicurezza nazionale. Trame e immagini funzionano qui come un potente meccanismo in grado di congiungere le strategie politiche all’immaginario collettivo, agli umori, agli stereotipi culturali e al senso comune radicati nella società americana.
“Negli Stati Uniti la questione del destino nazionale è oggetto di molteplici tradizioni cinematografiche; la prima è quella del western, il racconto delle origini che fa del cinema un medium fondamentale della costruzione dell’identità nazionale americana; la seconda è quella, appunto, del cinema di sicurezza nazionale che, attraverso film polizieschi, di guerra, di spionaggio, ma anche di commedie sentimentali, interroga le possibilità di sopravvivenza degli Stati Uniti, la legittimità della loro potenza militare e del suo utilizzo presente e futuro”.
Tuttavia, sarebbe fuorviante dipingere il rapporto tra potere e cinema come un unico processo centralizzato, come se all’interno dei centri decisionali della politica, dell’economia e delle autorità militari non esistessero conflitti e, soprattutto, come se la stessa cinematografia non fosse, essa stessa, soggetto interno e interprete degli scontri in atto. Nel processo intervengono “sia lo Stato che l’industria, non solamente militare ma anche civile, il settore scientifico, l’università, i media e larghe fasce della società civile”. La strategia è “il risultato di continue lotte di potere tra la Casa Bianca, le commissioni senatoriali, il Pentagono, i servizi militari, le agenzie di Itelligence, il complesso militare industriale”. Il cinema prende posizione, produce potenti apologie del potere come anche formidabili atti di accusa agli abusi della potenza armata.
L’ossessione del pericolo indefinito, proveniente dall’esterno, è evocato per legittimare la messa a punto di strategie di difesa e di sicurezza, “che possono andare dal varo di grandi programmi di riarmo alle decisione di inviare spedizioni militari in qualche parte del mondo”. Tutto, in questo universo mentale, può rappresentare una minaccia, dall’Unione Sovietica al cyberspazio, dai poliziotti ai terroristi, passando per il fanatismo mediorientale e il pericolo giallo asiatico.
E il cinema partecipa, registi e produttori danno alla minaccia una dimensione affettiva perché risulti efficace e pregnante e scateni autentici sentimenti collettivi di inquietudine. Già alla fine degli anni ‘40 il collegamento tra Hollywood e il ministero della Guerra assume forma istituzionale con la creazione di un vero e proprio ufficio. Da allora la cooperazione tra esercito e grandi Studios diventa una faccenda complessa. E’ una storia che inizia dagli anni ’50, con film come Uomini sulla lunaIl villaggio dei dannati, fin troppo espliciti nel rappresentare il pericolo sovietico attraverso lo stereotipo dell’invasione degli extraterrestri e a costruire consenso attorno all’inquietudine di un pericolo proveniente dall’esterno. Bisogna attendere il trauma della guerra del Vietnam per sperimentare la prima, seria frattura tra il potere politico e gli Studios cinematografici. Anche Hollywood, come il resto del paese, sarà allora attraversato dalla contestazione pacifista che infiamma le élite liberali e colte. E’ l’epoca di Apocalipse now di Francis Ford Coppola, grande denuncia della follia e dell’imbarbarimento prodotti dalla guerra sulla società americana, o dei Tre giorni del Condor di Sidney Pollack che riflette un sentimento di diffidenza nei confronti della Cia.
Eppure questa tendenza liberale si interrompe e s’inverte in un capillare orientamento conservatore con l’avvento di Reagan. Rambo, il reduce del Vietnam che si ribella di fronte a una società che lo misconosce, riabilita l’esercito agli occhi del paese, così come Fratelli nella notte di Ted Kotcheff – storia di una missione in Vietnam per recuperare prigionieri americani – ricompone nella memoria il trauma della guerra. La storia sfuma nell’attualità dei nostri anni: alla minaccia comunista si sostituisce il nuovo pericolo impersonato, dal mondo islamico, dagli stessi poteri interni alla società statunitense sul punto di sfuggire a ogni controllo.

 

 

Giancarlo Mancini, LO STRANIERO
– 24/05/2005

 

HOLLYWOOD, IL PENTAGONO E WASHINGTON

 

Dopo diversi approcci, propensi più al sensazionalismo che all’analisi compiuta, è benvenuta l’uscita di un interessante volume di Jean- Michel Valantin dal proditorio titolo: Hollywood, Washington ed il Pentagono. Il cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni. L’autore, ricercatore di Studi Strategici al CIRPES, ha iniziato la propria indagine proponendo all’attenzione del lettore un legame strutturale forte tra il cinema e la strategia politica. A partire dagli albori della settima arte infatti i valori di “frontiera”, “città sulla collina” e “destino manifesto”, i capisaldi della costruzione dell’identità nel nuovo continente, sono stati i punti di riferimento fondanti dell’immaginario filmico.

Prima di tutti l’invito di Roosvelt, immediatamente dopo l’attacco di Pearl Harbour, a tutte le grandi majors dell’epoca a predisporre prodotti intenti a formare il popolo americano all’entrata in guerra. Artisti del calibro di Frank Capra, James Stewart, John Wayne e molti altri ancora vengono direttamente investiti dell’aureo compito di partecipare attivamente alla vittoria dei supremi valori incarnati dalla missione intrapresa dai soldati a stelle e strisce. A palese ringraziamento del grande dispiegamento di forze messo in campo da Hollywood, il Pentagono autorizzerà a partire da Il giorno più lungo, il film sullo sbarco in Normandia, i propri soldati a fare da monumentale cornice a decine di ricostruzioni storico- oleografiche.
Anello terminale della vicenda, con in mezzo la controversa vicenda del Vietnam, c’è proprio l’undici settembre, in cui, dopo un’altra riunione, Washington chiede ai produttori di allinearsi nella distinzione tra mondo arabo e terrorismo. Individuando solo ed esclusivamente nel secondo il nemico da abbattere, quello per cui vale la pena mettere in moto la propria formidabile potenza bellica.
Il risultato sostiene Valantin, è l’ingresso dei più ligi alla linea, davanti a tutti lo zelante Rupert Murdoch signore di Fox Tv, nel mercato cinese mentre gli europei ancora sono costretti a restare silenziosamente al palo davanti alla Città proibita.

L’affascinante excursus delinea con chiarezza e senza i paranoici moniti scandalistici che hanno contrassegnato molti interventi pre- elettorali, lo scenario di una relazione che è mutata con il mutare del rapporto tra gli Stati Uniti ed il Mondo esterno. Oggi, sostiene Valantin, siamo nell’epoca del “Cinema di sicurezza nazionale, con molti film unilateralisti e militaristi post- 11 settembre, come Black hawk down, o al filone tecnomilitare in cui lo scontro tra buoni e cattivi è ancor più manicheo con in testa Terminator III. E’ l’immagine di un assetto da Stato di Sicurezza nazionale arroccato su posizioni messianiche, oggi pericolosamente oscillanti verso la tirannia quando il sistema di controlli e bilanciamenti viene alterato dal varo delle leggi speciali”.

 

 

Elena Canzoni, L’ACCHIAPPAFILM
– 05/05/2005

 

Hollywood, il Pentagono e Washington

 

Quale è il comune denominatore di film come ‘Independence Day (1996), Armageddon (1998), Black Hawk Down (2001), La morte può attendere (2002) e molti altri, pur se assai diversi?
La risposta risiede nel fatto che tutti in comune affondano le radici sul tema della sicurezza nazionale. Un tema che sta molto a cuore alla grande e potente Hollywood da sempre ossessionata da questo problema.
In questo libro Jean-Michel Valantin racconta la storia degli stretti legami fra l’industria cinematografica e i centri del potere politico-militare americani dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Da quando Roosevelt convocò Capra e Ford per commissionargli pellicole che mobilitassero psicologicamente la nazione, passando per film ideologici come ‘Il Giorno più lungo’, ‘Terminator’, Top Gun’, la storia si snoda fino alla guerra irachena e alla nota montatura di salvataggio di Jessica Lynch, la donna-soldato “presa in ostaggio” in Iraq e liberata in diretta con una spettacolare irruzione sceneggiata dal Pentagono. Ebbene, Valantin mostra come Hollywood, Il Pentagono e Washington siano stati per oltre sessant’anni i tre protagonisti di una medesima strategia di potere, finalizzata alla celebrazione dei valori fondativi della nazione, alla legittimazione delle scelte governative in politica interna e internazionale, all’esportazione forzata di modelli culturali, politici, economici e sociali.
Il successo di film che mettono in scena i temi sulla sicurezza nazionale attirano folle immense di spettatori sia per la visione sul grande schermo sia per la loro programmazione in tv fino al noleggio e vendita nei supporti vhs e dvd. Non a caso i budget per produrre questo genere di film variano tra i venti e i centosessanta milioni di dollari. Particolare attenzione viene rivolta alla scelta del regista, poiché si tratta di filmare la nazione, o i suoi soldati e agenti, nel momento del pericolo. Le minacce sono spesso rappresentate da eserciti nemici, terroristi, extraterrestri, macchine impazzite, oppure dalla natura stessa come nel caso di ‘Deep Impact’ (1998) in cui un gigantesco asteroide minaccia di schiantarsi sulla Terra dove annienterà la specie umana.
Un genere di film decisamente drammatico e spettacolare ma anche di voluta precisione sociologica che ha segnato molteplici tradizioni cinematografiche. A partire da quella del western che segna le origini dell’identità nazionale americana, fino a quella, appunto, del cinema di sicurezza nazionale che interroga le possibilità di sopravvivenza degli Stati Uniti nonché della legittimità della loro potenza militare e del suo utilizzo presente e futuro.
Ecco perché questo saggio è di grande attualità e ricco di documenti alla mano in cui l’autore, esperto di studi strategici e di sociologia della difesa, mostra come la produzione cinematografica viaggi in parallelo con la produzione strategica creando spontaneamente un “cinema di sicurezza nazionale”.

 

 

Alessandro Zaccuri , AVVENIRE
– 19/04/2005

 

Hollywood schiera le sue armate

 

Va bene salvare il soldato Ryan, ma non sottovalutiamo il soldato Jane. Entrambi combattono in difesa degli Stati Uniti d’America e dei loro alleati, non si discute. Eppure non combattono esattamente dalla stessa parte. Non all’interno del Pentagono, almeno. Proviamo a spiegarci. Il soldato Ryan – o, meglio, il drappello che cerca di recuperarlo all’indomani dello sbarco in Normandia – appartiene al corpo dei ranger, quindi all’Us Army. La fanteria, insomma.
Quel maschiaccio di Jane, invece, è un Navy Seal. Fanteria sì, ma agli ordini della Us Navy. Sembra la stessa cosa, invece non lo è, per tutta una serie di buone ragioni che l’esperto di studi strategici Jean-Michel Valantin passa in rassegna nel suo Hollywood, il Pentagono e Washington, un saggio aggiornatissimo e molto ben documentato che Fazi pubblica ora nella traduzione di Jacopo De Michelis (pagine 208, euro 15,00). Che un libro così sia scritto da un francese può stupire, ma non troppo, e non soltanto per l’attenzione spesso polemica che gli autori d’Oltralpe riservano alle vicende americane.
In modo molto meno sciovinista, in realtà, Valantin parte da un’ammissione: mentre il cinema europeo continua a occuparsi delle alterne fortune di una borghesia più o meno confusa e infelice, Hollywood si dimostra sempre più capace di trasformare in spettacolo le grandi questioni istituzionali della società Usa, a partire dal dibattito sulla “sicurezza nazionale” che, da almeno mezzo secolo, tiene banco sulla scena americana. E quando si parla di sicurezza nazionale si parla di guerra, appunto, ma non soltanto di guerra.
Spionaggio e controspionaggio, limitazione dei diritti civili per contrastare il terrorismo, reinterpretazione del passato e immaginazione del futuro: ecco, la sicurezza nazionale è tutto questo e forse anche qualcosa in più. La prevenzione delle catastrofi naturali, per esempio, temibile nemico senza volto capace di mettere a dura prova i princìpi di convivenza civile su cui gli stessi Stati Uniti si fondano. Ciascuno di questi aspetti è stato esplorato in modo puntuale e niente affatto ingenuo dal cinema Usa degli ultimi decenni, con un intreccio fra potere politico, apparato militare e show-biz che Valantin indaga con estrema precisione.
Non è caso, per tornare al soldato Ryan, che il film di Steven Speilberg appaia nel 1998, quando l’importanza del “combattimento al suolo”, e quindi della fanteria, è messa da più parti in discussione. Molti sostengono, al contrario, la supremazia della guerra “litoranea”, che è poi la stessa descritta da Ridley Scott in Soldato Jane, che porta la data del 1997. Un anno prima, in Independence Day, Ronald Emmerich aveva ribadito la superiorità assoluta della difesa aerea, magari da adoperare contro gli alieni invasori. La commistione tra dibattito strategico e fantascienza, del resto, non è una novità. Già negli anni Ottanta il presidente Reagan perorava l’importanza del progetto Star Wars citando in modo esplicito l’omonima saga cinematografica di George Lucas, che pure, più di recente, ha ospitato al suo interno un dibattito tutt’altro che scontato sulla possibile degenerazione di una repubblica in impero (Episodio II: l’attacco dei cloni, 2002).
Si tratta, a ben vedere, dello stesso interrogativo che attraversa Il gladiatore di Ridley Scott (2000), proprio come le perplessità sull’impiego di sistemi di controllo sempre più capillari sta al centro di un altro film di Spielberg, Minority Report, realizzato nel 2002, dopo la svolta imposta dagli attacchi dell’11 settembre.
Pur accusata di aver ispirato il set dei terroristi di al-Qaeda, Hollywood ha saputo mantenere i nervi saldi, come dimostra Al vertice della tensione di Phil Alden Robinson (2002), abile adattamento di un romanzo di Tom Clancy. Un “film importante”, avverte Valantin, non soltanto un kolossal costruito a colpi di effetti speciali. Se volete nascondere qualcosa – insegnava Edgar Allan Poe nella “Lettera rubata” – mettetelo in bella mostra. Oppure, Hollywood permettendo, fateci un film.

 

Attilio Giordano, IL VENERDÌ
– 08/04/2005

 

Tutte le volte che Hollywood ha dato una mano al Pentagono

 

Nel 1942 il presidente Franklin D. Roosvelt convocò alla Casa Bianca i grandi registi americani – tra cui John Ford e Frank Capra – “per commissionargli decine di film nella prospettiva della mobilitazioni psicologica del Paese. Da allora nacque un “ufficio di collegamento” tra Hollywood e il Pentagono, una linea ininterrotta di relazioni che giunge fino ad oggi.
Lo racconta un esperto di studi strategici e sociologia della Difesa, Jean –Michel Valantin, francese, in un libro che esce in questi giorni dall’editore Fazi: Hollywood, il Pentgono e Washington (pp. 250, euro 16). E non si tratta, come rivela lo studioso, di relazioni “platoniche”: il Pentagono e Washington sono intervenuti regolarmente anche nel finanziamento di questi prodotti che l’autore definisce “cinema di sicurezza nazionale”.
E’ molto interessante, e a tratti sorprendente, rileggere le due storie parallele. Cominciando dal secondo Dopoguerra, quando al cinema viene riservato il ruolo di presentare il conflitto mondiale come “buono”, legittimando – osserva l’autore – anche la presenza militare americana in Europa. Le relazioni tra Hollywood e il Pentagono, allora, sono ottime (e non sempre lo saranno). Il giorno più lungo ( 1962), è un momento importante di quest’incontro: “richiede un dispiegamento logistico di tale portata da parte dell’Us Army e Us Navy da portare, in una sorta di apogeo, alla creazione di un complesso militar-cinematografico”.
Ma, già prima, la geo-politica americana aveva usato il cinema per esprimersi. Valantin ricorda che negli anni Cinquanta, quando l’ex alleato Sovietico è già da tempo diventato il nemico numero Uno, la Guerra fredda si può leggere anche sugli schermi del cinema. E non è sempre qualcosa di espresso, di diretto. Vanno considerati film di questa famiglia, per esempio, Uomini sulla luna (1950) nel quale un gruppo di scienziati Usa parte per lo spazio allo scopo di creare una base prima degli altri. La minaccia comunista – che prende forma negli anni del maccartismo – si rappresenterà in moltissimi film di fantascienza, dove alieni e “cose” di altri mondi simboleggiano la paura di una civiltà diversa e ostile ai valori americani. Il villaggio dei dannati (1960) è “particolarmente rappresentativo di tale processo”: un Ufo passa sopra la terra e, nove mesi dopo, tute le donne partoriscono simultaneamente. I bambini sono molto sospetti, molto diversi: comunicano telepaticamente, causano incidenti, compongono “una società parallela”. E’ la scoperta metafora dell’Unione Sovietica che mette in forse i valori occidentali.
Ma il cinema non si allinea acriticamente al Potere. Per esempio, l’uso del nucleare come deterrente resta comunque inviso agli americani e, dunque, al cinema. Lo testimoniano film come Assalto alla terra (1954) dove i nemici sono formiche giganti mutate dagli esperimenti nucleari. O il Dottor Stranamore (1963) di Stanley Kubrik, dove l’Unione Sovietica è bombardata a causa di un folle colonnello dell’Air force, dedito ad un anticomunismo paranoico e sodale di un ex nazista.
Gli anni Sessanta, con il Vietnam, dividono l’America. E il cinema segue la frattura. John Wayne, nel 1965, scrive al presidente Johnson per proporgli un film che faccia comprendere agli americani le ragioni della guerra. Sarà Berretti verdi (1968), incoraggiato da Johnson e con l’assistenza di elicotteri e consiglieri del Pentagono. Ma quando la guerra si mostra senza sbocchi, Hollywood segue l’onda avversa. E’ da leggersi in questo senso, spiega Valantin, il terribile Mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, “western crepuscolare di una violenza allora inedita”, che mette uno di fronte all’altro l’esercito messicano e una banda di terrificanti vecchi fuorilegge americani. O, più semplicemente, Apocalypse now (1975) di Coppola, per realizzare il quale il regista fu costretto ad andare a girare nelle Filippine, che gli affittarono elicottero che non avrebbe mai ottenuto negli Stati Uniti. E Il cacciatore (1978) di Michael Cimino. Il “divorzio tra opinione pubblica e sicurezza nazionale” si esplicita con I tre giorni del Condor (1975) di Sidney Pollack, dove la Cia si schiera contro l’eroe onesto. A questa frattura si oppone una serie che vuole riabilitare, se non l’impresa, almeno i protagonisti del Vietnam. Rambo (1982), storia di un veterano che non accetta di essere trattato da assassino per aver fatto “il suo dovere”.
Straordinaria la vicenda di Star Wars, di Gorge Lucas (1977), che coincide con la volontà di Ronald Reagan di munire gli Usa di uno scudo spaziale. Fine accettato da Hollywood e dagli americani, essendo alternativo alla proliferazione nucleare. In Guerre Stellari, osserva Valantin, il “lato oscuro” della forza, il Male, viene tenuto a bada dalla potenza protettiva del laser. Reagan, ex attore, fu cosciente della simbologia del film, tanto che un suo discorso a fvore dello scudo si concluse con “la Forza sia con noi”. Persino l’indebolimento dell’Unione Sovietica è subito utilizzato per una volta hollywoodiana, oltre che geo-politica. Caccia a Ottobre Rosso (1990), con Sean Connery, è il film di cooperazione tra ex nemici. Ma, nel contempo, esalta il ruolo della Us Navy, la Marina, e ne viene ricompensato con un supporto tecnico totale. Addirittura l’ammiraglio della flotta Atlantica è interpretato da Fred Thompson, senatore repubblicano. Ma la Guerra del Golfo del 1991 segna una novità: Hollywood la ignora o quasi. L’opinione pubblica non la considera “giusta” e soprattutto “poco eroica”.
Sarà il terrorismo, sia pure parzialmente, a ripresentare una Hollywood sensibile alle strategie del Pentagono (stavolta in mano ai democratici di Clinton). Ma, ancor più, alle paure diffuse degli americani. Così con Giochi di potere (1992), dove i terroristi sono irlandesi e l’azione è spostata a Londra. E dove la Cia “repubblicana” delle operazioni illegali è un nemico pericolosissimo. Si torna al simbolo con Indipendence Day (1996), qui il Presidente deve affrontare nemici alieni. E’ un “film Air force”, poiché sarà l’aviazione ad averla vinta. Questa sotto-guerra tra armi si legge nel cinema in modo elementare: Topo Gun (1986) è un manifesto che serve, dichiaratamente, ad esaltare la Marina, Salvate il soldato Ryan (1998) rappresenta la rivincita dell’esercito, Pearl Harbor (2000) sostiene le richieste dell’Aviazione.
Ma intanto Hollywod, grazie ai progressi immani della tecnica cinematografica e all’ausilio del computer, non è più succube del Pentagono. E il rapporto, prosaicamente, si allena.
Il che toglie che si possa leggere Il Gladiatore, come fa Valantin, anche come una nuova metafora (“Il mondo è tenebre, Roma è luce”) della guerra al terrorismo. D’altronde l’11 novembre 2001, a due mesi dagli attentati alle torri, Karl Rove, braccio destro di Bush, incontra di nuovo gli uomini di Hollywood pregandoli di “non mettere in scena la guerra di civiltà”, contro l’Islam, ma contro il terrorismo.
Infine, c’è da chiedersi se questa vicinanza, d’amore e di odio, rappresenti qualcosa di illecito, come qualche volta l’autore dello studio sembra voler sottintendere. Ma dove collocheremo l’Iliade?E la grande pittura antica, tutta volta a magnificare la Chiesa e i suoi simboli? Forse quello che Valantin racconta è successo anche a noi. Ma tanto tempo fa.

 

 

REPUBBLICA.IT
– 14/04/2005

 

UNITED STATES OF HOLLYWOOD

 

Il cinema è un prolungamento della strategia americana dai tempi di Roosevelt, quando convocò Frank Capra e John Ford per chiedere il loro contributo per smuovere le coscienze e l’amor di patria. Il cinema crea nell’opinione pubblica un universo mentale fatto di pochi e semplici miti che affondano nell’unico grande mito americano, la fondazione, la ribellione alla tirannia, il diritto messianico di esistere e di espandersi oltre la frontiera di perseguire la felicità. Ci sono tre pilastri che tengono in piedi la sicurezza nazionale degli Stati Uniti intesa non solo in senso militare ma anche ideologico e sono, come dice il titolo del libro di Jean-Michel Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington (tr. it. J. De Michelis, Fazi, 15). E’ una lunga panoramica dei rapporti tra il potere politico e del governo con l’industria dell’immaginario per eccellenza dalla seconda guerra mondiale alla seconda guerra in Iraq. Si susseguono gli esempi di film compiacenti con i desideri della Casa Bianca come quelli di fantascienza di metà anni Cinquanta quando gli ultracorpi che invadevano la Terra (o meglio l’America) erano una metafora neanche troppo velata dei nemici sovietici. Oppure film che accompagnano le nuove grandi paure come quella di una guerra nucleare (Il pianeta delle scimmie). O gli altri, infiniti, girati con l’appoggio logistico delle forze armate in eterna concorrenza tra loro per raccogliere arruolamenti. Ma si documenta anche la ribellione degli studios ai desiderata del potere politico durante la guerra in Vietnam quando il polo liberale di Hollywood scelse l’opinione pubblica e non la linea del governo e Francis Ford Coppola sfornò Apocalypse Now. Oppure la ribellione al mito della sicurezza nazionale buona con film come I tre giorni del condor, un durissimo attacco alla Cia. Insomma, storia controversa con grandi momenti di luce e di ritratti impietosi dell’America e grandi oscurità.

 

Cinzia Romani, IL GIORNALE
– 29/03/2005

 

Se Washington striglia Hollywood

 

Esiste una relazione pericolosa tra Hollywood e Washington? Ovvero: il Pentagono mette bocca o no nelle decisioni degli studios, orientandone la strategia produttiva? La questione del destino degli stati Uniti è oggetto d’una consolidata tradizione cinematografica, fin dai tempi del western e, al momento, emerge tutto un cinema di sicurezza nazionale, che s’interroga sulla sopravvivenza degli Stati Uniti e sulla legittimità dell’uso della sua non discutibile fora. Per quanto, ormai, gli europei sembrino stufi dell’antiamericanismo sempre pronto a puntare il dito sul grande schermo, invocando la fine della cinepropaganda Usa, resta innegabile l’esistenza di film militaristi (come Black Hawn Down o Soldato Jane con l’improbabile eroina Demi Moore, per esempio), o di film che insistono sulla necessità di controllare il settore tecno-militare, alla Terminator.
La fabbrica dei sogni, insomma, che già scherzava poco, quanto a manipolazione della settima arte, all’epoca di Roosvelt, quando John Ford, nel 1942 venne convocato alla Casa Bianca, al fine di commissionargli una pellicola per preparare gli americani alla guerra, dopo l’11 settembre fa sul serio più di prima. La minaccia del terrorismo arabo-islamico ha rafforzato da tempo la cooperazione tra l’apparato di sicurezza e gli studios, a livello logistico. Così, la Marina militare ha prestato portaerei e piloti per Top Gun di Ridley Scott: di converso, però, tale film, con la sua aura di fascino e rischio tra le nuvole e in mezzo al mare, ha messo fine alla crisi di reclutamento della Us Navy. Per il film Abyss, poi, Jack Cameron aveva messo a punto un numero così consistente di efficaci macchine da presa, per le speciali riprese subacquee, che la Marina militare si precipitò ad adottarle. Dal canto suo, l’Air Force non è stata a guardare: Indipendence Day, uno dei più grandi successi del box office, nel 1997 dette notevole lustro all’aviazione americana, capace di salvare il pianeta dagli exraterrestri. Ma anche di presentarsi al mondo come l’arma più moderna, in grado di rispondere subito agli attacchi al Pentagono. Se, storicamente, non è cosa nuova l’interdipendenza tra il cinema, quale strumento di propaganda e l’industria militare e civile (per tacere dei media e delle università), nuovo è l’accentuarsi, negli ultimi vent’anni, di questa liasion dangereuse. Come evidenzia l’originale libro del ricercatore francese Jean-Michel Valantin, Hollywood, il Pentagono e Washington. Il cinema e la sicurezza nazionale dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri (ad aprile pubblicato da Fazi Editore). Nell’accurata analisi di questo esperto di studi strategici si afferma che occorre guardare i film americani come Rambo o Minority Report come frammenti d’un discorso complessivo sulla strategia di difesa americana. Per quanto preoccupata della propria indipendenza, almeno a parole, Hollywood è ossessionata dal problema della sicurezza nazionale. E per supportare la sua tesi, Valantin procede per parallelismi tra il cinema e il dibattito sullo space power, quel “potere sullo spazio” che ha partorito Star Wars e Space Cowboys. Dato che a maggio si concluderà la storica saga di Guerre stellari, con La vendetta dei Sith, che riproporrà alla nostra attenzione Obi-Wan Cenobi (Ewan McGregor, nel ruolo che fu di Alec Guinness) e i duelli con la spada laser sul pianeta Kashyyyk, riflettere sulla militarizzazione del cinema è pertinente. Tanto più che la Minaccia dell’Impero, nozione polimorfa, ha subito varie evoluzioni, dagli anni Cinquanta del comunismo sovietico, passando per il pericolo asiatico, al terrorismo internazionale.
E se ai Berretti verdi (1965) di John Wayne risposero film contestatari, perché gli studios dovevano render conto a un pubblico sempre più ostile alla guerra in Vietnam, prodotti critici comeApocalypse now di Francio Ford Coppola furono “l’espressione collettiva del Male, in nome della strategia di lotta contro il comunismo” (Così Valantin). E oggi? La guerra in Iraq, finora, ha prodotto la montatura del salvataggio di Jessica Linch (già portato sullo schermo nel 2003 e attualmente sul set della versione numero due), con irruzione sceneggiata dal Pentagono.

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